Al referendum del 4 dicembre io voto No, perché…

“Un ponte verso il nulla”, è il titolo dell’articolo del Financial Times dedicato al testo di revisione costituzionale Renzi-Boschi sul quale saremo chiamati a pronunciarci il 4 dicembre prossimo. Secondo il giornale inglese la revisione, se approvata dagli elettori, “farà poco per migliorare la qualità del governo, della legislazione, della politica.” La presa di posizione della testata inglese smentisce dunque le previsioni apocalittiche prospettate dal presidente del Consiglio nel caso di vittoria del No al referendum e costituisce un’autorevole conferma del nostro giudizio negativo sulla legge di revisione costituzionale, varata, non dimentichiamolo, da un Parlamento di non eletti, ma di designati dai partiti, grazie a una legge elettorale, il Porcellum, dichiarata incostituzionale dalla Consulta. Una prima osservazione riguarda il taglio dei costi della politica, che ridurrebbe da 315 a 100 il numero dei senatori sul quale il Governo sembra avere incentrato la propria campagna referendaria. Va rilevato, a questo proposito, che le modifiche costituzionali non possono essere concepite per semplici ragioni di risparmio di spesa, come si dichiara addirittura nel titolo della legge di revisione che costituirà anche il testo del quesito referendario. Il buon funzionamento delle istituzioni non è un problema di costi, bensì di equilibrio tra organi diversi e di potenziamento, non di indebolimento delle rappresentanze elettive. La riduzione del numero dei senatori, prevista dalla legge di revisione, porterebbe a un risparmio di soli 50 milioni secondo la Ragioneria generale dello Stato, dato che rimarrebbe inalterata la struttura preposta all’assistenza dei 100 senatori che per espletare il loro mandato dovranno recarsi a Roma. Un risultato efficace si sarebbe ottenuto tagliando lo stipendio di senatori e deputati, senza toccare la Costituzione repubblicana, oppure riducendo proporzionalmente anche il numero dei deputati che invece rimane inalterato (630). Un’ altra argomentazione dei sostenitori del Sì è riferita al fatto che la legge di revisione garantirebbe una maggiore stabilità dei governi. La stabilità a nostro avviso, non dipende da imperfezioni della nostra Carta costituzionale, ma solo dalla coesione delle maggioranze politiche che sostengono i governi. Riteniamo comunque che la stabilità non è un valore assoluto, perchè un governo non lo si può giudicare dalla sua durata, ma dalla sua buona politica. E poi chi l’ha detto che mantenere al potere per 5 anni (a causa del premio di maggioranza abnorme) un governo che fosse di incapaci, sia una buona idea? La legge di revisione abolisce solo le elezioni per il Senato che verrà eletto dai Consigli regionali e non più dai cittadini. Per il resto il Senato resta vivo e vegeto, con tutta la costosissima burocrazia retrostante. Il bicameralismo paritario non viene dunque superato, anzi si rende ancora più farraginoso il cammino legislativo. Al posto di un solo procedimento legislativo bicamerale, l’articolo 70, proposto nella legge di revisione e scritto in maniera illeggibile, ne prevede addirittura dieci. È falso affermare che cambiando ben 47 articoli della Costituzione non si abbia un impatto sui principi fondamentali. Se vincesse il Sì ci troveremmo di fronte a un Senato che pur privo dell’investitura popolare eserciterebbe comunque importanti funzioni. Il primo a essere toccato sarebbe quindi l’articolo 1 della Costituzione: “La sovranità appartiene al popolo”. È inoltre non corretto affermare che la revisione costituzionale non cambi la forma di governo. La trasformazione risulta dall’intreccio tra revisione costituzionale e legge elettorale che prevede un esagerato premio di maggioranza (340 deputati su 630) alla lista che raggiunge il 40% dei voti o, nel caso nessun partito raggiunga tale percentuale, alla vincente tra le due liste che partecipano al ballottaggio. Così una minoranza esigua può dominare il sistema intero, senza l’intralcio di un Senato non più eletto dai cittadini. La democrazia costituzionale ne risulterebbe stravolta. I cittadini rimarrebbero senza voce: con un Senato non più eletto dal popolo ma da consiglieri regionali che si eleggono fra loro, con una Camera dove domina una maggioranza artificiale creata distorcendo l’esito del voto. Una Camera in cui una simile maggioranza può dominare le istituzioni, estendendo la sua influenza alle stesse istituzioni di garanzia. Se questo scenario dovesse prevalere saremmo di fronte ad un rafforzamento del potere esecutivo e la nostra non sarebbe più una Repubblica parlamentare. È da decenni che gli Italiani stanno attendendo cambiamenti. L’attesa non riguarda però la Carta Costituzionale che è gia stata modificata 16 volte, anche in modo sbagliato. Basti ricordare la revisione dell’articolo 81 con la quale si è introdotta la legge di pareggio di bilancio. L’attesa è per il cambiamento del Paese, per riforme che rendano la vita di ognuno degna di essere vissuta. Ma per far questo non si può pensare di stravolgere la Costituzione nata dalla Resistenza. Il Paese lo si cambia attuando la Costituzione nei suoi principi e nei suoi valori fondamentali, a cominciare dall’art.1 che recita “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.