“L’Abbandono. Vite Sfocate”, armonia di immagini e parole

Ad Art Action Ottavia Laise fotografa ed Elena Manenti poetessa

Grazie ai cellulari oggi molte persone, ragazzi, giovani o meno giovani si sentono fotografi: paesaggi, persone, monumenti, selfie… si fotografa ogni cosa, dovunque, in ogni momento della giornata. Ma il “vero” fotografo è un’altra cosa e ne abbiamo conferma guardando le immagini che Ottavia Laise, fotografa professionista, espone dall’11 al 25 marzo nella galleria Art Action di Bresso. Negli scatti c’è sapiente abilità tecnica, certo, ma anche qualcosa di più profondo, di più intimo che ci porta al di là dell’immagine stessa e ci permette di intuire lo stato d’animo dell’artista, le sue emozioni, di cogliere il suo messaggio. Per essere un grande fotografo non basta amare la fotografia, ci vogliono passione, tanto studio, creatività, ricerca, caratteristiche che ritroviamo tutte nella storia di Ottavia. “Sono l’ottava figlia di una famiglia di artisti, chi si dedica alla pittura, chi alla danza, chi suona il pianoforte: abbiamo nel Dna i geni di mia madre che era decoratrice. La passione per la fotografia mi è stata trasmessa a soli 12 anni da un mio fratello che mi regalò una Olympus OM10 acquistata al mercatino delle pulci di Milano. Ho poi frequentato un Istituto diplomandomi in Grafica Pubblicitaria e ho approfondito la fotografia sotto la guida del maestro Denis Curti,direttore artistico della Casa ‘Tre Oci’ di Venezia e della Fondazione Forma, centro internazionale di fotografia. È iniziata così la mia carriera che mi ha dato la possibilità di vivere tante e varie esperienze in ambiti diversi. Ricordo con gioia quando, ancora studentessa di Grafica, su invito di Luigi Garoli, pittore e restauratore per il quale posavo come modella, ho potuto partecipare ai lavori di restauro della famosa Battaglia di Enea nel Quattrocentesco Palazzo Besta di Teglio in Valtellina. È stato entusiasmante. Amo affrontare sfide, cimentarmi, mettermi alla prova e lavorare con altri creativi perché penso che spaziare in tanti orizzonti sia un cassette e soprattutto manifesti che vediamo qui raccolti. “Abbiamo un patrimonio di ben 150mila manifesti dal cinema muto a oggi. Il più raro è quello del film ‘La corona di ferro’ realizzato nel 1941 da Alessandro Blasetti; ce ne sono due sole copie, una l’abbiamo noi, l’altra un collezionista di Roma. Mussolini infatti aveva censurato il manifesto e fatto bruciare le copie perché a suo parere l’abito scollato della donna disegnata suggeriva un nudo. È un capitale di grande interesse che permette di leggere anche l’evoluzione dello stesso manifesto nel tempo. Dal 1895 al 1905 la comunicazione del film proposto avveniva attraverso una semplice frase, dal 1905 al 1930 il cartellone diventa una vera opera d’arte creata dalla genialità di artisti famosi, dal ‘30 al ‘45 si istituzionalizza, non c’è più la totale libertà di interpretazione del pittore obbligato ormai a rispettare le indicazioni delle varie case cinematografiche. Seguono anni in cui soprattutto con l’influsso della Pop Art si alternano nei manifesti tradizione e sperimentazione, poi una fase di tipo fotografico conclude l’epoca pittorica dei cartellonisti e dal 2005 ormai la comunicazione avviene con altri mezzi legati alle nuove tecnologie e i manifesti non li guardiamo più”. Una storia di grande interesse storico-culturale e di grande fascino è racchiusa nello spazio del Museo del Manifesto Cinematografico e sarebbe davvero molto triste perderla. “È vero. Il Museo è nato nel 2013 ma questo spazio è stato un luogo di cultura sin dal 1900: era una fabbrica di strumenti a fiato, la fabbrica Orsi, ma grandi musicisti venivano qui a fare le loro prove di strumento. Durante l’ultima guerra chiude per riaprire negli anni ‘80 in veste comunicativa come grande studio fotografico in cui Gianpiero Lessio, il nostro attuale presidente, realizzava fotografie anche per importanti cataloghi come il Postalmarket, la Vestro e campagne pubblicitarie per Eineken, Rubinstein, Moretti, lavori di grande qualità. La sera questo spazio diventava un luogo creativo e un polo di sperimentazione per pionieri in tanti campi, dalla letteratura alla pittura, dalla scienza alla danza con nomi divenuti famosi e nello stesso tempo si organizzavano eventi utilizzando manifesti cinematografici che Gianpiero Lessio collezionava. Il Museo nasce nel 2013 e oggi deve chiudere perché i proprietari intendono ristrutturare l’edificio per altre attività. Così siamo alla ricerca di un luogo per poter continuare ma non è facile perché abbiamo bisogno di uno spazio molto ampio e malgrado i contatti e l’interesse di molti, compreso il presidente del Municipio 9, ad oggi non c’è alcuna soluzione all’orizzonte. Abbiamo presentato già tre anni fa in Comune la richiesta per una nuova sede ma i tempi burocratici sono incredibili, molto lontani dalle esigenze del cittadini. Ci piacerebbe restare in zona e magari con il Mic creare una vera cittadella del cinema. È vero che nel territorio esistono tante realtà culturali ma la nostra, come già detto, è particolare. Non solo. È un luogo per i giovani, che non hanno tante possibilità di incontro e che qui possono ritrovarsi, interagire, confrontarsi, ed è uno spazio puramente culturale, aperto alle associazioni di zona e ai cittadini che ne facciano richiesta”. L’attività del Museo è gestita con intelligenza, capacità e tanta passione da Gianpiero, Laura, Sara Perucchini, che si occupa della segreteria organizzativa degli eventi, e da pochi volontari. Ci auguriamo possano continuare in una nuova sede a regalarci nuove conoscenze e nuove emozioni. Info: museofermoimmagine@gmail.com – 3478686784. arricchimento, uno stimolo per aprire nuove finestre alla propria arte”.
Quali sono quindi i settori che la vedono oggi impegnata?
“Faccio di tutto. Fotografo modelle per il mondo della moda, organizzo e creo video per band musicali, per il gruppo Mirage ad esempio ho trovato una location decisamente strana, una cava abbandonata nel Veronese che si adattava molto bene a quella musica un po’ particolare. È un lavoro affascinante questo che richiede studio, fantasia, intuizioni e sensibilità. Collaboro alla stesura di libri. Ho appena pubblicato una guida sui birrifici del Friuli Venezia Giulia e in collaborazione con un noto chef ho realizzato un volume sulla cucina tipica calabrese. Particolarmente significativa per me la collaborazione con la scrittrice Elena Manenti con cui ho realizzato la mostra “Ferro e Cielo” e con il pittore Vittorio Bustaffa, con cui sto completando un progetto di ampio respiro sul tema dell’abbandono. Ad Art Action espongo proprio otto di queste immagini, sono fotografie di fabbriche in disuso, ombre di una vita che non c’è più. Quello dell’abbandono è per me un tema molto caro. Ho sempre provato una forte attrazione per i luoghi dimenticati dal mondo,i misteri che questi nascondono mi attirano irresistibilmente. Ho la sensazione di essere parte di questa realtà sconosciuta di cui percepisco il respiro, gli odori, i profumi e il vissuto. Devo assolutamente entrare al loro interno e lo faccio, spesso anche rischiando come quando ho scavalcato il muro di cinta per entrare nell’ex manicomio di Volterra o nella fabbrica Rubattino a Milano. Amo fotografare fabbriche, casolari, edifici dismessi, deserti dove l’uomo non c’è più. È sconvolgente la contrapposizione tra gli interni bui, in rovina e l’esterno dove la luce, i colori, il rigoglio della vegetazione inneggiano alla vita”. Le foto in mostra rappresentano luoghi fatiscenti e silenziosi, fantasmi di un passato che doveva essere fervido e dinamico: vetri infranti, grovigli di ferri arrugginiti, spazi vuoti, cortili desolati, sterpaglie, muri cadenti, reticolati che lasciano appena intravedere cieli plumbeii. L’uso del bianco e nero o del color seppia accentuano il senso di decadenza, il dolore per la perdita definitiva di qualcosa che è stata parte di noi. In una delle immagini però il cielo azzurro che si intravede attraverso i finestroni distrutti e un cespuglio abbarbicato aun reticolato sembrano quasi voler ricordare che comunque la vita continua, c’è ancora speranza. Una mostra interessante, un simbolico viaggio interiore di ogni essere umano che dopo la sofferenza per l’abbandono e la perdita cerca, seppur faticosamente, di uscire dal buio per tornare a riprendere in mano la propria vita. Ognuna delle immagini esposte è accompagnata da profonde poesie della scrittrice Elena Manenti, che nei suoi bellissimi versi sottolinea come “al di là degli angusti spazi ferrosi e tortuosi della nostra psiche, al di là della prigione che noi stessi spesso ci creiamo possiamo ancora contemplare sprazzi di cielo blu stellato”. E ritorna la vita.