“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione” (22 dicembre 1947, Assemblea Costituente, Roma). Questo primo articolo della Costituzione è fondamentale, è quello su cui si basa la nostra Repubblica. La sua genesi affonda le radici nel periodo della seconda guerra mondiale che abbiamo analizzato nella redazione di “Zona Nove”, durante un incontro con Angelo Longhi, presidente della sezione “Martiri niguardesi” dell’Anpi. A partire dal marzo del ‘43 molti operai e operaie in tutta Italia e in particolare nella zona nord di Milano, decisero di scioperare: un’azione di estremo coraggio in un Paese sotto il tallone nazifascista in cui lo sciopero era considerato sabotaggio ed era punito spesso con la deportazione in Germania. Con questa azione la classe operaia italiana acquisisce un ruolo attivo nella lotta comune per la pace e la libertà, comunemente nota come Resistenza o lotta di Liberazione. Il primo episodio avviene nella mattina del 5 marzo 1943, quando gli operari dell’officina 19 di Mirafiori a Torino decidono di scioperare. Questa giornata in seguito venne definita “un amaro risveglio per gli attoniti gerarchi nazifascisti”. L’8 settembre del ‘43 i nazisti, a seguito dell’armistizio firmato dal re, occupano tutta la penisola. In seguito gli alleati da una parte, i partigiani dall’altra, il cui contributo fu fondamentale specie nel nord, iniziarono il duro confronto che porterà alla liberazione del Paese il 25 aprile 1945. In questo scenario la partecipazione delle donne, spesso non è considerata importante, quando invece il loro ruolo è fondamentale. Sia in città che in montagna ci sono partigiane combattenti, staffette, cioè in sostanza quelle che in un esercito regolare sarebbero definite ufficiali di collegamento e donne che semplicemente, magari senza armi, si oppongono al fascismo assistendo, aiutando e sostenendo i partigiani e le loro famiglie. Il ruolo delle donne è fondamentale soprattutto all’interno delle città: le famiglie dei partigiani che combattevano in montagna, ma anche quelle dei deportati e dei carcerati, si trovavano prive di qualunque mezzo di sostentamento in un periodo in cui mettere insieme il pranzo con la cena è difficile per tutti. Queste donne sfamano i bambini e aiutano a trasportare clandestinamente armi, munizioni, messaggi e a diffondere la stampa clandestina, fondamentale per consentire alle persone di conoscere la situazione reale del Paese. Possono svolgere queste mansioni avendo più possibilità di circolare perché, in quanto donne, non insospettiscono la polizia fascista e i soldati tedeschi. Per esempio una fioraia che lavora in piazzale Loreto, utilizzando timbri contraffatti riescono a fornire ai partigiani documenti falsi senza dare nell’occhio. Inoltre, oltre a nascondere i partigiani, le donne forniscono vestiti civili ai soldati che vogliono scappare, in modo da non farli riconosciuti dai tedeschi. Esse inoltre in fabbrica prendono il posto degli uomini partiti per la guerra, seppur con un salario nettamente inferiore. Ci sono due esempi molto importanti di donne che hanno combattuto il fascismo pur senza imbracciare le armi, quelle che oggi definiremm obiettrici di coscienza, che hanno lasciato un segno nella storia: Maria Peron e Suor Giovanna Mosna. La prima, dopo l’8 settembre 1943, entra in contatto con la Resistenza milanese per il tramite dei prigionieri politici che, dall’infermeria del carcere di San Vittore, bombardata, vengono trasferiti a Niguarda. Comincia così la collaborazione dell’infermiera con i Gap (Gruppi di azione patriottica) e l’organizzazione della fuga dall’ospedale di ebrei e antifascisti, avviati all’espatrio clandestino o alle formazioni partigiane. Nel giugno del 1944, quando i fascisti scoprono l’organizzazione, l’infermiera riesce a sottrarsi alla cattura calandosi da una finestra dell’ospedale e, datasi alla macchia in Val d’Ossola, aggregandosi alle formazioni combattenti. Per tutti i mesi della guerriglia Maria, che gira con una sorta di divisa ricavata da un equipaggiamento militare, sulla quale ha cucito una grande croce rossa, organizza infermerie, ospedali da campo, cura i partigiani feriti e anche i nazifascisti catturati, il tutto senza portare mai con sé alcuna arma. Suor Giovanna Mosna, invece, era capo sala della divisione Ponti di Niguarda, trasformata nell’infermeria delle carceri per i partigiani e detenuti politici più gravi. Nell’ospedale di Niguarda si prese cura di partigiani e perseguitati politici. Insieme ai medici cercava ogni espediente per guadagnare tempo e consentire le fughe dei prigionieri, a volte ingessandoli completamente, altre volte inventandosi patologie e addirittura fingendone la morte. Al termine della guerra le donne vengono di nuovo espulse dal mondo del lavoro. Si pretende che tornino a casa, che nascondano, se partigiane, la loro storia, e riprendano ad essere “angeli del focolare”. Ne parla Miriam Mafai, partigiana e giornalista, nel suo celebre libro “Pane nero”: “Siate miti, siate dolci, siate sottomesse, riprendono a consigliare i giornali femminili. Coltivate, suggeriscono, le vostre qualità di prima della guerra, quelle che gli anni della fame, della paura e della responsabilità vi hanno fatto perdere. Persino il giornale di sinistra ‘Noi donne’ raccomanda: ‘Dovrai essere molto arrendevole, non dovrai imporre la tua volontà, dovrai far vedere che hai fatto progressi nel tenere la casa’.” Ci vorranno anni perché le donne riescano a ritornare protagoniste della vita politica e sociale, anni in cui solo a pochissime donne sarà dato accesso a luoghi di potere. Si dovrà arrivare agli anni ‘70 per vedere concretizzarsi qualche libertà e qualche passo in direzione dell’uguaglianza delle donne. Se questo avverrà, però, sarà anche grazie alle donne che combatterono il fascismo, nonostante fosse richiesto loro un coraggio superiore addirittura a quello degli uomini.