“I risultati economici positivi ci sono, ma per trasformarli in condizioni di vita migliori è necessario non interrompere il percorso riformatore”

La crisi economica insieme alla globalizzazione, che hanno prodotto l’una l’impoverimento di una parte degli italiani e l’altra il venir meno di tanti strumenti che consentivano nei vecchi stati nazionali di poter condizionare i processi economici e sociali, hanno provocato preoccupazione e incertezza per il futuro. Ci si sente tutti più precari e meno protetti al di là del reddito o della posizione lavorativa. Per questo e in questo senso il tema della sicurezza è diventato sempre più centrale. Non sono aumentati i reati in questi anni, anzi, ma è aumentata la paura del futuro, la diffidenza verso il cambiamento e, spesso, la preoccupazione di ritrovarsi soli e indifesinell’affrontare i problemi. Di fronte a questo quadro il dibattito della campagna elettorale rende evidente l’esistenza di due risposte, da parte della politica, fondamentalmente diverse e quasi incompatibili, che descrivono oggi il vero discrimine tra due campi. Da una parte c’è chi cavalca quelle paure, spesso enfatizzandole, per racimolare un po’ di consenso e, contemporaneamente, non manca di indicare il colpevole, il capro espiatorio, che è sempre quello un po’ più debole e povero di quanti vivono condizioni di precarietà e quindi sono più esposti alle preoccupazioni per il proprio presente e per il proprio futuro. Nessuno in buona fede può pensare che le difficoltà di tante famiglie siano colpa di una immigrazione che nasce dalla disperazione di interi popoli. Ma è facile, soprattutto se non si governa la questione, trovare lì il nemico da evocare e indicare in una impossibile cancellazione della immigrazione la soluzione di tutti i mali del mondo. In realtà chi sceglie tale scorciatoia non ha soluzioni concrete, specula sul disagio e alimenta rancore e mina la convivenza. Non c’è nessuna idea di futuro, nessuna idea di una politica capace di proteggere, solo la volontà di costruire consenso sulle paure. L’alternativa a questo sta in una politica che si assume la responsabilità di affrontare i problemi nella loro concretezza, tutti i problemi: dal governo dell’immigrazione, ad un controllo sempre più efficace del territorio, dal lavoro al sostegno economico a chi lo perde, dalla lotta alle povertà, al bisogno di combattere la solitudine in una società che invecchia. Agitare i problemi, nonostante siano veri, non da soluzioni. Parole d’ordine come “rimpatriare 600 mila clandestini” (in Italia ce ne sono meno di 500mila) o “metteremo l’esercito in strada” valgono il tempo della campagna elettorale. Sono strade improponibili e annunciate da chi, quando ha governato, ha fatto il contrario, tagliando risorse economiche alle forze dell’ordine e riducendo il personale, da chi a Milano, con Aler, ha ridotto troppi quartieri popolari al degrado per poi protestare. Soprattutto sono strade che evocano una situazione emergenziale che ci fa sentire ancora più insicuri. La strada dell’assunzione della responsabilità di dare più protezione, in ogni senso, ai cittadini è l’unica strada che guarda al futuro. Certo è una strada non breve e non semplice, i grandi problemi attuali non si risolvono dall’oggi al domani e chi lo lascia credere è un imbroglione e soprattutto un irresponsabile. Ma è la strada che in questa legislatura abbiamo iniziato a percorrere con i governi Renzi e Gentiloni. In questa direzione vanno la prima legge nazionale contro la povertà, quella sul reddito di inclusione, l’istituzione della Naspi che garantisce a tutti i lavoratori, anche gli autonomi, un reddito e un accompagnamento se perdono il lavoro, i bandi per le periferie che hanno finanziato progetti sociali e la stessa costruzione di scuole e centri aggregativi, la legge sulla dispersione scolastica. Ma allo stesso tempo, nella convinzione che serva intervenire su più fronti per garantire sicurezza ai cittadini, dopo anni abbiamo investito sulle forze dell’ordine incrementando di 3 miliardi gli stanziamenti, aumentando sia gli stipendi degli agenti sia riaprendo le assunzioni e costruito con la Libia e altri Paesi le condizioni per combattere i trafficanti di schiavi, riducendo così lo scorso anno del 40% gli sbarchi e raddoppiando i rimpatri (dati incontestabili che i teorici dell’invasione cercano di nascondere). Certo molto c’è ancora da fare e se i benefici dei risultati economici positivi non si sono ancora trasformati in condizioni di vita migliori per tanti che ancora faticano, perchè sia possibile che succeda serve non interrompere questo percorso.