La Giornata della Memoria nel calcio Seconda parte: Vycpàlek, da Dachau allo scudetto

Imeno giovani dei nostri lettori ricorderanno sicuramente Cestmír Vycpálek, l’allenatore che portò la Juventus a vincere due scudetti consecutivi (1971- 72 e 1972-73), guidandola anche nella finale di Coppa Campioni 1973 (persa con onore contro la splendida Ajax di Johann Cruijff per 0-1) e nell’Intercontinentale giocata a Roma contro l’Independiente. Quasi tutti sanno che Vycpálek, primo giocatore straniero a indossare la maglia bianconera nel secondo dopoguerra, come in una sorta di nemesi era lo zio materno di Zeman, uno che – al contrario – con la Juve non ha mai avuto buoni rapporti. Ma forse in pochi sono a conoscenza che Cesto (questo, il suo soprannome) può entrare a pieno titolo nella Giornata della Memoria, perché anche lui provò l’esperienza di essere rinchiuso in uno dei primi, nonché “modello”, di tutti i campi di concentramento ideati dai nazisti: quello di Dachau, situato a qualche chilometro da Monaco di Baviera (ancora visitabile). Nato a Praga nel 1921, Cestmír fin da piccolo aveva avuto un grande tifoso: suo padre, che aveva intravisto in lui le doti del campione. E la profezia si era avverata, perché a soli diciassette anni si trovava già nella rosa della squadra che aveva sempre amato, il prestigioso Slavia Praga. Era una discreta mezzala dotata di tiro potente, classe e buona visione di gioco. Giocava a testa alta, Vycpálek, e a queste doti tecniche abbinava una carattere deciso. Quello che gli avrebbe permesso di sopravvivere nel lager voluto da Himmler già nel 1933, poco dopo la presa del potere da parte di Hitler. Nell’ottobre 1944, infatti, Cestmír venne fermato dai tedeschi e poi costretto a passare sotto la famigerata scritta “Arbeit macht frei” (Il lavoro rende liberi) che introduceva in tutti i campi di concentramento. Strappato alla sua vita da calciatore, Cesto si trovò così gettato in un inferno che, come avrebbe dichiarato in seguito, lo trasformò in “uno scheletro vivente con una casacca a righe, che stringeva il filo spinato”. Era uno dei duecentomila sciagurati che gli storici hanno calcolato furono internati nel lager di Dachau. Più di quarantamila non sarebbero più tornati dalle loro famiglie: Cesto, invece, ce la fece. Traendone una grande lezione: “Solo chi c’è entrato può sapere quanto sia stato difficile, quasi miracoloso uscirne. In quel campo, Hitler rinchiudeva i nemici della sua follia: ebrei, antinazisti, cittadini degli stati invasi dalla croce uncinata. Ed io sono cecoslovacco di Praga, dunque un nemico. Vi passai otto mesi di sofferenze inaudite, di privazioni enormi; una buccia di patata, ogni due giorni, mi pareva un tesoro inestimabile. Solo chi è passato attraverso queste esperienze, ripeto, può capire che valore ha la vita e non impressionarsi più di nulla”. Molte volte le storie legate alla Giornata della Memoria hanno un esito tragico. Quella di Vycpálek, no. Ed è anche per questo che l’abbiamo scelta. Perché per lui, dopo l’incubo, era in attesa una vita pieni di sogni sportivi realizzati. Con due città italiane che lo avrebbero avuto per sempre nel loro cuore. Innanzitutto, la Torino bianconera. In cui giunse, come giocatore, nel 1946, per restarvi un solo anno. E dove tornò nel 1970 come allenatore delle giovanili, sostituendo poi Armando Picchi – prematuramente scomparso – e conquistando due titoli sul filo di lana, il secondo per l’inaspettato harakiri del Milan nella fatal Verona. Quindi, Palermo. Della cui squadra fu il simbolo, diventandone prima il capitano (il primo straniero in serie A) e poi pure l’allenatore che la riportò in serie A nel 1959. E dove lui scelse di vivere con i suoi cari (una volta abbandonata per sempre la Cecoslovacchia nei tristi giorni della repressione sovietica del 1968). E di morire, il 5 maggio 2002, mentre la sua Juve, battendo per 2-0 l’Udinese, si aggiudicava il 26°titolo. Proprio la città siciliana ha deciso di ricordarlo per sempre, dedicando il piazzale antistante lo stadio Barbera a lui, Cestmír Vycpálek. Sopravvissuto a Dachau.