Milan, meglio tornare o dirsi addio?

Ecosì Ibrahimovic non tornerà in rossonero. Mai più. Come in tutte le ultime sessioni di mercato il suo nome è apparso nel cielo dei tifosi milanisti come la scia di un aereo, salvo poi svanire lentamente. Di conseguenza, diciamolo pure, molti casciavit ci sono rimasti male. E non solo per le sue qualità, ma anche perché in lui rivedono il simbolo dell’ultimo Milan competitivo, quello dello Scudetto 2010-11 strappato all’Inter e della sfida tricolore (persa) con la Juve di Conte l’anno successivo. Invece, si sussurra che potrebbe rivestire la casacca milanista Pato. Il quale, al contrario di Ibra, non desta alcun entusiasmo. Se ciò avvenisse (e tocchiamo ferro…), sarebbe solo l’ennesimo dei vari “ritorni a Casa Milan” degli anni recenti, assolutamente coerente con un modus operandi che, analizzati i risultati, bisognerebbe proprio evitare. Ma andiamo con ordine, e cominciamo da chi – senza colpa! – ha aperto questa sciagurata pratica, Roberto Donadoni. Trasferitosi al New York Metrostars nel 1996, rientrò alla base l’anno dopo per giocare come riserva due altri tornei, tra cui quello del miracoloso tricolore di Zaccheroni del 1999. Del Donadoni che dribblava tutti e che andava avanti e indietro senza mai fermarsi non era rimasto molto, ma tutto sommato il suo fu un ritorno dignitoso, al contrario di quello di Shevchenko. Lasciato il Milan nel 2006 per “motivi familiari” (o su pressione della società che voleva incassare un bel gruzzolo di danee?), per un paio di stagioni giocò nel Chelsea senza brillare, tanto che The Sun lo definì il peggior affare di una squadra inglese degli ultimi dieci anni. Ritornato in prestito in rossonero nel 2008-09, Sheva non venne riscattato alla fine di una stagione che lo vide in campo per 18 volte in serie A senza segnare nemmeno lo straccio di un gol. Del resto, ne aveva fatti parecchi prima, tanto da essere il secondo miglior marcatore di sempre, dopo Nordahl, nella gloriosa storia del Diavolo. Un altro triste “innanz indree” è stato quello di Kakà, indimenticabile Eroe dell’empireo rossonero. Dopo sei stagioni, uno scudetto e una Champions, il brasiliano venne acquistato nel 2009 dal Real Madrid per la bellezza di 65 milioni di euro. Tuttavia, in quattro campionati Kakà non seppe mai conquistare il Bernabeu come aveva fatto con San Siro. E così, con grande retorica, ricomparve nelle fila rossonere nel 2013-14, disputando poi un’annata così anonima da provocare la rescissione del contratto biennale. Lo stesso insuccesso toccato a Balotelli, arrivato al Milan nel gennaio 2013 (dal Manchester), ceduto nell’estate 2014 al Liverpool e poi ripreso dalla società milanista nell’agosto successivo per un prestito che, dopo una sola rete realizzata nelle venti gare disputate nel campionato 2015-16, restò senza seguito. Insomma, quando ci si lascia è meglio dirsi addio. Questo, dice la Storia recente dei calciatori del Milan: le “minestre riscaldate” non fanno bene alla digestione. Un assioma che, al contrario, non vale per gli allenatori. Perché se è vero che qualcuno, tornando, ha clamorosamente fallito, qualcun altro invece ha riportato con sé gloria e onori. Arrigo Sacchi, ad esempio, tra il 1987 e il 1990 ha scritto la leggenda del football sedendo (poco, visto che era sempre in piedi!) sulla panchina rossonera, tanto che la rivista France Football nel 2006 ha proclamato il Milan la migliore squadra del mondo del dopoguerra, titolo confermato l’anno dopo dal sondaggio on line del World Soccer. Abbandonata Milano nel 1991, Arrigo si dedicò alla Nazionale (con un 2° posto ai Mondiali del 1994), salvo ritornarvi nel dicembre 1996 in sostituzione di Tabarez. Di nuovo alla guida dei rossoneri, subì ben 9 sconfitte su 23 gare (tra cui un terrificante 1-6 a San Siro con la Juve) raggiungendo un pessimo 11° posto. Un gradino in meno del suo successore, quel Fabio Capello che in precedenza aveva conquistato con il Milan quattro scudetti e una Coppa dei Campioni, ma che al termine della stagione del suo rientro, il 1997-98, fu bruscamente congedato per passare l’anno seguente alla Roma poi alla Juventus iniziando successivamente la perenigrazione in Europa (Inghilterra e quindi Russia) e Cina. Tuttavia, due altri mitici allenatori, tornando addirittura più volte sulla panchina rossonera, hanno lasciato un segno indelebile. Nereo Rocco, ad esempio, nel 1963 portò per la prima volta una squadra italiana sul tetto d’Europa, e quella squadra era il Milan. Trasferitosi al Torino nello stesso anno del trionfo, il Paròn rientrò sotto la Madonnina nel 1967 e da quel momento vinse tutto quello che poteva vincere. Non solo: messo in disparte nel 1974, ritornò per la seconda volta al Milan nel 1976- 77, salvandolo dalla retrocessione e conducendolo alla vittoria in Coppa Italia (contro l’Inter a San Siro). E lo stesso discorso vale per Nils Liedholm. Prima, guidò i rossoneri a metà anni Sessanta senza vincere nulla. Poi, fu richiamato sulla sponda milanista del Naviglio nel 1977-78, regalando ai tifosi la Stella l’anno dopo e salutando tutti. Ma nel 1984 era ancora sulla panchina del Milan, a mettere le basi ai futuri trionfi di Arrigo Sacchi.