
Il 16 gennaio, all’età di 94 anni, ci ha lasciato Venanzio Gibillini. I suoi funerali si sono tenuti presso la chiesa di San Carlo alla Ca’ Granda, alla presenza dei Gonfaloni del Comune di Milano, della Città metropolitana e della Regione Lombardia. A 19 anni si era rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò. Arrestato dai fascisti e incarcerato a San Vittore, era stato deportato, come “politico” contrassegnato con il triangolo rosso, a Bolzano e poi a Flossemburg. Destinato ad un campo di lavoro forzato, venne liberato il 25 aprile 1945. Dopo la guerra era diventato un testimone instancabile, parlava soprattutto ai ragazzi delle scuole, perché proprio le giovani generazioni, a suo parere, dovevano avere il compito di tenere viva la memoria, affinché non si ripetessero gli orrori che lui aveva vissuto. Ho avuto l’onore e il privilegio di assistere a uno di questi incontri. Venanzio era stato chiamato a preparare i ragazzi e le ragazze che, come ogni anno, a spese del Comune di Milano, affrontano il viaggio verso Mauthausen. Con il suo tono mite e le sue parole semplici e prive di qualsiasi traccia di odio, Gibillini aveva raccontato la propria esperienza ai ragazzi. Aveva descritto loro quel giorno, pieno di violenza e fatica e in questo uguale a tutti gli altri, quando, dalle parole di un compagno di prigionia, aveva realizzato che quello era il giorno in cui compiva vent’anni, lì, dietro al filo spinato del lager. Dalla sua borsa aveva estratto un cucchiaio, e lo aveva mostrato agli studenti. Per costruirselo, nell’officina dove era impegnato come schiavo, aveva rubato un pezzo di metallo e, a rischio della vita, lo aveva forgiato. Ai ragazzi che gli chiedevano perché avesse rischiato una condanna a morte per costruirsi una posata, lui aveva risposto con semplicità che poteva sopportare tutto, il freddo, la fatica, la fame, le botte, ma non di inghiottire la misera zuppa rovesciandosela direttamente in gola come fosse una bestia. Sul manico, con grande pazienza, aveva inciso due parole: “Mamma” e “Milano”. Mi sono fatta l’idea che fossero i due pensieri, i due obiettivi che lo avevano tenuto in vita in quella terribile situazione. Il sindaco Beppe Sala lo aveva insignito della Medaglia d’oro nel 2017 e ha espresso profondo cordoglio per la sua morte in un comunicato stampa che recita, tra le altre cose: “Milano è grata a Venanzio Gibillini per il suo luminoso esempio di coraggio e per la infaticabile testimonianza dei valori ambrosiani di libertà, antifascismo e difesa della democrazia“.