“Con il decreto sblocca cantieri si ricreano gli spazi per il malaffare e le mafie”

Acosa serve il così detto decreto “sblocca cantieri”? È questa la domanda fondamentale che bisogna porsi se si vuole capire che cosa sta succedendo senza lasciarsi incantare dagli slogan e da una narrazione che non ha riferimenti con la realtà del provvedimento. Prima di tutto va sottolineato il dato più recente del Cresme che racconta che nel primo trimestre del 2019 sono stati avviati il 20% in più di cantieri di opere pubbliche rispetto allo stesso periodo del 2018 con il codice degli appalti vigente. Non è quindi vero che le norme bloccano o rallentano le opere, sono semmai la mancanza di scelte politiche e gli scarsi investimenti a frenarli. Non solo. È evidente che ributtare per aria il codice degli appalti proprio mentre, dopo un anno e mezzo, stava entrando a regime, rallenterà di nuovo processi e procedure: il decreto prevede un nuovo regolamento, nuovi decreti attuativi e la ridefinizione delle centrali appaltanti. Quindi anche se la velocizzazione delle opere viene presentata come l’obbiettivo della nuova normativa non è questo l’effetto che si produrrà ma, al contrario, si rischia di perdere altro tempo. L’altra ragione per cui è legittimo pensare sia utile intervenire di nuovo sulle norme che regolano gli appalti è quella di garantire maggiore qualità, sostenere l’innovazione e realizzare opere all’avanguardia per le garanzie di sicurezza e di funzionalità. In realtà, anche su questo, il decreto fà fare passi indietro. Basti pensare che si ritorna al prezzo più basso (adesso si chiama così il massimo ribasso) come criterio prevalente anche negli appalti assegnati col criterio dell’offerta più vantaggiosa, riducendo il valore della qualità delle proposte. Non ci vuole molta immaginazione per capire quali saranno le conseguenze. Non ci sarà quindi nè più rapidità nelle assegnazioni degli appalti nè più qualità delle opere pubbliche. Concretamente ciò che produce questo decreto è un ritorno al passato sul tema delle garanzie di legalità. Anche qui la narrazione del Governo propone uno scambio: per fare le opere più velocemente, ma abbiamo visto che questo non succederà, dobbiamo rinunciare alle norme appena introdotte che servivano, in un Paese così a rischio come il nostro, a combattere la corruzione ed aumentare la trasparenza. Si ricreano gli spazi per il malaffare e le mafie. Il combinato disposto dell’innalzamento a 200mila euro del limite al di sotto del quale è possibile l’appalto senza gara, la scelta di tornare al massimo ribasso, la liberalizzazione dei subappalti, arrivando a prevedere che chi perde la gara può diventare subappaltatore, il drastico ridimensionamento del ruolo di Anac e la reintroduzione dei commissari straordinari di nomina governativa che possono agire in deroga a tutto e non solo in emergenza, produce oggettivamente modifiche che possono essere criminogene. Non basta raccontare che siccome lo “spazzacorrotti” prevede pene pesanti per corrotti e corruttori non c’è più bisogno di prevenire i reati con norme che riducano gli spazi di penetrazione della criminalità e del malaffare. È evidentemente l’argomento con cui i Cinque Stelle cercano di nascondere la responsabilità che si stanno assumendo approvando un provvedimento che smentisce il loro impegno per la trasparenza e la legalità e realizza l’idea dell’ex sottosegretario Siri che sosteneva che il buon senso doveva sostituire i controlli e le regole e che non sono le tangenti ma Anac e il codice degli appalti la malattia. Sia chiaro, nessuno pensa che funzioni tutto e che nulla vada modificato. Anzi da quando è stato varato il nuovo codice degli appalti si era detto che avrebbe dovuto essere verificato una volta entrato a regime, ma la scelta sembra essere quella di demolirlo a prescindere dai risultati. E lo si fa con la scusa della velocità, con piglio decisionista e facendo passare come giusto un principio pericolosissimo, cioè che chi amministra deve poter decidere non solo giustamente ciò che si fa e come va fatto ma anche chi lo deve realizzare con piena discrezionalità