Quando l’arbitro Lattanzi di Roma prese in mano il fischietto e decretò la fine della partita, scoppiai a piangere. Era già da qualche minuto che respingevo le lacrime con la speranza di un gol al novantesimo, ma a quel punto non c’era più niente da fare. Allora, cominciai a singhiozzare. Lì, sugli spalti dei popolari di San Siro, mentre sul campo i giocatori dell’Atalanta si abbracciavano felici e i nostri si avviavano mesti a centrocampo per salutare il pubblico. Al mio fianco, papà Ildebrando mi guardava con aria di rimprovero. Conoscendolo, pure lui era molto deluso, anzi arrabbiato, per quello 0-0 che allontanava il Milan dallo scudetto 1968-69. Tuttavia mascherava perfettamente i suoi sentimenti, fingendo l’aria superiore di chi attribuisce a una partita di calcio un valore limitato. Un atteggiamento da “grande”, incomprensibile per i miei sette anni. Per compiacerlo chiusi gli occhi, deglutii e mi imposi di smetterla. Mi alzai dal duro cemento, piegai il cuscinetto rossonero, avvolsi la bandiera e mi incamminai con lui verso l’uscita. Un signore, sorridendo, mi rivolse una parola di conforto ma io restai a testa bassa per tutto il tempo che occorse a percorrere il lungo viale verso piazzale Lotto e salire sulla nostra Fiat 124. Ero veramente disperato, e fino all’arrivo in viale Sarca risposi a monosillabi ai tentativi di conversazione intavolati da mio padre. Soprattutto, però, ero indignato verso il mondo. Quello che era successo era profondamente ingiusto: il Milan aveva giocato benissimo e Sormani, Rivera, Prati avevano sfiorato parecchie volte la rete. L’Atalanta era stata dominata, quasi mai aveva superato il centrocampo e il suo portiere aveva parato l’imparabile. Non solo: i suoi giocatori erano stati sleali, perdendo tempo buttandosi a terra e fingendo di essere infortunati, rallentando la rimessa in gioco del pallone oppure passando molto spesso la palla indietro a De Rossi. Eppure, alla fine, erano stati proprio loro, i bergamaschi , a essere premiati! Io, bimbo equilibrato, dall’innato senso di giustizia, questo non lo riuscivo a capire, ad ammettere. Ma come era possibile? Ciò significava che non basta avere ragione per far sì che le cose vadano bene. Significava che l’ingiustizia può trionfare sempre e comunque, nonostante uno faccia il proprio dovere, sia corretto e a posto con la propria coscienza. Sì, significava proprio questo. Era l’8 marzo 1969, e grazie a quel Milan-Atalanta avevo scoperto una Legge fondamentale della vita: non sempre vince chi merita. Anzi, quasi mai. La legge immorale del calcio. E dell’esistenza. Football magister vitae. Da quel pomeriggio di fine inverno, l’innocenza della mia infanzia iniziò a svanire.