La legge n. 104/1992 disciplina le agevolazioni riconosciute ai lavoratori affetti da disabilità grave, nonché ai familiari che assistono una persona con handicap in situazione di c.d. gravità. Per la legge in esame, “è persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione”. Il legislatore, inoltre, considera sussistente la situazione di gravità “qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione”. La condizione per poter accedere ai permessi ex lege 104, è che la persona che li richiede o per la quale si richiedono, non dev’essere ricoverata a tempo pieno in una struttura specializzata. Molti sono i soggetti che possono accedere a questa tipologia di permesso retribuito nel settore privato o pubblico: tra essi le persone portatrici di disabilità con contratto individuale di lavoro dipendente, anche part time; i genitori lavoratori dipendenti; il coniuge lavoratore dipendente; i parenti o affini entro il secondo grado lavoratori dipendenti; i parenti o affini entro il terzo grado lavoratori dipendenti. Recentemente, poi, l’INPS ha esteso con una circolare la possibilità per le parti di un’unione civile e ai conviventi di fatto con riferimento al proprio partner, di poter godere dei permessi; beneficio, tuttavia, non esteso per l’assistenza dei parenti dell’altra parte dell’unione o della coppia di fatto. È di tutta evidenza che la circolare, benché rilevante, lascia un vuoto normativo; vuoto che tuttavia è già stato in parte colmato dalla Corte Costituzionale nel settembre del 2016, quando ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 33, comma III della legge 104, nella parte in cui non include il convivente tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito per l’assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità, in alternativa al coniuge, parente o affine entro il secondo grado. In concreto ed in linea generale, i soggetti beneficiari della legge 104, possono usufruire di tre giorni di riposo al mese, eventualmente frazionabili in ore o, in alternativa, in riposi giornalieri di una o due ore. In linea di principio, non essendo prevista una specifica norma che disciplini i requisiti di richiesta e concessione dei permessi, qualora vengano richiesti tempestivamente al datore di lavoro, egli non può rifiutarli; è evidente, però, che la tempestività deve essere valutata in concreto caso per caso e sovente tale aspetto crea conflittualità nei rapporti di lavoro, dovendo essere bilanciati il diritto del lavoratore al permesso, con il diritto dell’impresa di poter far fronte alle sue esigenze tecnico-amministrative. Posta la dovuta premessa, è interessante vedere come, per la Corte di Cassazione – sezione Lavoro, la scelta di una sede di lavoro più vicina al familiare da assistere, è consentita non solo all’inizio, ma anche durante lo svolgimento del rapporto di lavoro; trattasi di un principio di non poco conto, ad esempio nei casi in cui il lavoratore dipendente domandi il trasferimento ad altra sede di lavoro. L’ordinanza della Suprema Corte che ha fissato questo principio, è originata dal caso di un lavoratore che aveva richiesto al datore di lavoro di poter scegliere la sede di lavoro più prossima al Comune ove viveva la sorella che necessitava di assistenza. Mentre in primo grado il Tribunale, sezione Lavoro, gli aveva negato tale diritto, la Corte d’Appello, aveva ordinato al datore di lavoro il trasferimento del dipendente presso altra sede, tra quelle disponibili, il più possibile limitrofa al domicilio della familiare. La Corte, con principio poi confermato anche dalla Corte di Cassazione, ha precisato che l’art. 33, comma 5, della L. n. 104/1992 (modificato dalla L. n. 53/2000 e poi dalla L. n. 183/2010) deve trovare applicazione non solo nella fase genetica del rapporto quanto alla scelta della sede, ma anche in ipotesi di domanda di trasferimento proposta dal lavoratore. Ciò in quanto la ratio della norma è di favorire l’assistenza al parente o affine portatore di handicap ed è irrilevante se tale esigenza sorga nel corso del rapporto o sia presente all’epoca dell’inizio del rapporto stesso. E ciò si impone a maggior ragione dopo le modifiche introdotte con la L. n. 53/2000, che ha eliminato il requisito della convivenza tra il lavoratore e il familiare handicappato, e con la L. n. 183/2010 che ha eliminato i requisiti della “continuità ed esclusività” dell’assistenza. La Corte di Cassazione, ha quindi sancito il principio secondo cui il diritto alla salute psico-fisica, comprensivo della assistenza e della socializzazione, va garantito e tutelato, alla persona portatrice di handicap in situazione di gravità, sia come singolo che in quanto facente parte di una formazione sociale per la quale, ai sensi dell’art. 2 Cost., deve intendersi “ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico”, ivi compresa quindi la comunità familiare. Se l’opportunità di scegliere la sede di lavoro fosse circoscritta alla sola fase iniziale del rapporto lavorativo, comporterebbe una negazione di tutela in tutti i casi in cui esigenze sopravvenute di assistenza rendano necessario il trasferimento.

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