Verso l’Eterno

“Aquila che grida”, vecchio capo Sioux, un tempo guida incontrastata del Villaggio del Puma, con i suoi ottant’anni (ma forse erano anche di più) ormai non fumava che il suo calumet. Era passato il tempo in cui guidava i suoi alla caccia, a volte alla guerra, spesso in ricognizione attraverso la Riserva indiana. Era diventato semplicemente il Grande Vecchio. La sua tenda era semplice, spaziosa, impregnata di quell’odore a volte acre a volte dolciastro dell’intruglio che andava in fumo dal suo calumet. Passava così le sue giornate, assorto nei suoi pensieri, con lo sguardo all’apparenza assente, ma in realtà rivolto intensamente verso l’interiore. Le visite che riceveva, oltre a quelle per la fornitura dei pasti, sembravano di penitenti che si accostano al confessore. E lui rispondeva pacato, con poche parole, congedando il suo interlocutore con un semplice quanto impercettibile cenno della mano destra. Un giorno si alzò dalla sua stuoia di pelle di bisonte e a passi lenti andò in direzione della foresta. Nessuno osò seguirlo. Non si seppe più nulla di lui. Era andato verso l’Eterno. Sicuramente era morto: ma quando? ma come? e che fine aveva fatto il suo corpo? Queste domande sono però molto… occidentali. La sua gente aveva capito che “Aquila che grida”, sazio di giorni, era andato incontro ai suoi antenati, per continuare a vivere la sua vita nelle vaste praterie del Grande Spirito. La morte di “Aquila che grida” aveva il sapore della vita. Quell’assenza di cortei funebri, di singhiozzi disperati, di lamenti rituali, aveva lasciato nei suoi della tribù un senso di grande forza, di insperato coraggio. Sembrava che “Aquila che grida” fosse sempre lì con loro; non se n’era andato per sempre, aveva solo intrapreso il viaggio che, a lui e agli altri, apriva il varco al mistero. “Aquila che grida” era passato dalla vita alla Vita, abbandonando il suo corpo alla terra e il suo spirito allo Spirito, perché il suo passato restasse per sempre legato al suo futuro in un eterno presente.