Rientro dei cervelli in Italia: qualche volta succede per fortuna. Intervista alla dottoressa Valia Allori

La fuga dei cervelli è il fenomeno che coinvolge soprattutto giovanissime e giovanissimi che decidono di lasciare il proprio Paese, dopo la laurea, per cercare fortuna altrove. Un fenomeno per cui l’economia italiana ne risente notevolmente poiché investe miliardi di euro sull’offerta formativa, per poi disperderli successivamente. Per nostra fortuna, a volte, si parla anche di rientro. Abbiamo avuto il piacere di intervistare, a tal proposto, la professoressa Valia Allori, collaboratrice assidua e redattrice del nostro giornale Zona Nove da tantissimi anni, la quale, dopo aver conseguito la Laurea in Fisica a Milano, un Dottorato in Fisica a Genova e uno in Filosofia alla Rutgers University in New Jersey, si era trasferita nelle vicinanze di Chicago 20 anni fa per insegnare alla Northern Illinois University in Illinois. Ora è tornata in Italia come docente presso il Dipartimento di Lettere, Filosofia e Comunicazione all’Università di Bergamo.

Abbiamo chiesto alla dottoressa Allori, un parere su questi anni trascorsi all’Estero, da docente universitaria. Sono stati anni produttivi dal punto di vista culturale ed esperienziale, che se tornasse indietro rifarebbe?

“Lavorativamente parlando, sicuramente sì: l’ambiente universitario americano in cui mi sono trovata è molto aperto e stimolante, e tra l’altro mi ha permesso di sviluppare idee molto poco tradizionali che troppo spesso sono precluse ai giovani perché la scienza, anche se si dice che non sia dogmatica, sovente penalizza chi intraprende scelte eterodosse. Ma non so se sarebbe giusto generalizzare, dato che conosco persone che abitano negli Stati Uniti e che però hanno vissuto esperienze opposte alle mie. In ogni caso, dal punto di vista delle relazioni interpersonali e della società in generale, dopo un breve periodo di entusiasmo, vivere fuori dall’Italia mi è pesato molto. Mi dilungherei troppo a parlarne qui; diciamo solo che con tutti i difetti che conosciamo anche troppo bene, l’Italia dovrebbe convincersi a credere meno ad Hollywood e più in sé stessa”.

Secondo lei la cosiddetta “fuga dei cervelli” è un fenomeno dovuto alla poca attenzione delle Istituzioni e all’incapacità del mercato del lavoro di valorizzare i talenti?

“Questo è un discorso complicato, e penso che la situazione sia radicalmente diversa nel pubblico e nel privato. Anche limitandosi al pubblico, in particolare nel mondo della ricerca che io conosco un po’ meglio, la matassa è così intricata che non saprei da che parte cominciare. Quello che di sicuro posso dire è che i ricercatori che escono dalle nostre università sono tra i più preparati e validi al mondo, tanto che appena mettono il naso fuori trovano posizioni di prestigio e hanno successo, portando prestigio nel giro di pochi anni alle istituzioni estere in cui lavorano. In Italia entrare in università richiede un concorso pubblico, ci sono pochi posti per moltissimi candidati validi, pochi soldi, poche risorse, tempi lunghissimi di attesa, e tanto lavoro. Ci vorrebbe qualcuno che studiasse seriamente le differenze tra i vari sistemi, e scegliesse il meglio dell’estero che sia adattabile al nostro sistema che, mi preme ripeterlo, dal punto di vista formativo, è tra i migliori al mondo”. Per fortuna oggi esiste un incentivo sotto forma di regime di tassazione agevolata temporanea riconosciuto a docenti e ricercatori che trasferiscono la residenza fiscale in Italia per esercitarvi la propria attività lavorativa dopo aver svolto all’estero attività di ricerca o docenza per almeno due anni. 

Secondo lei, la fuga dei cervelli è assolutamente fisiologica e essere considerata una risorsa sia nel percorso di studi che in quello lavorativo? 

“Penso che studiare e lavorare all’estero sia estremamente positivo, e che potenzialmente possa arricchire moltissimo dal punto di vista personale e professionale. In passato però la partenza per l’estero, per lo meno per i ricercatori, era spesso definitiva, e quindi era un passo che in molti non si sentivano di fare. Io stessa l’ho vissuta così, e in tutta onestà non credevo sarei mai tornata. Ma le cose sono fortunatamente cambiate, con nuove leggi e disposizioni che forniscono non solo una tassazione agevolata a chi ritorna, ma anche e soprattutto danno la possibilità ai singoli atenei di chiamare direttamente a lavorare per loro specifici ricercatori, purché abbiano esperienza all’estero. In questo caso non c’è concorso pubblico, i posti aumentano e i tempi si snelliscono, così come la burocrazia. La creazione di questo tipo di ‘chiamata’ è a mio avviso un esempio di quanto dicevo prima: qualcosa che funziona bene all’estero e che si può adattare al nostro sistema in maniera efficace ed efficiente”.

Secondo la sua esperienza, quali sono le sostanziali differenze degne di rilievo tra le Scuole e le Università americane rispetto a quelle italiane e che cosa suggerirebbe alle Università Italiane che secondo lei viene gestito meglio in America e viceversa?  

“Con tutto il rispetto per il paese che mi ha dato casa e lavoro negli ultimi vent’anni, l’istruzione negli Stati Uniti è un disastro. Bisognerebbe davvero scriverci un saggio, ma l’istruzione primaria statunitense, per lo meno quella pubblica, di cui ho avuto esperienza in prima persona con i miei figli, è al limite del criminale: i bambini scrivono, fan di conto, vengono istruiti e valutati principalmente sul Chrome book. Non ci sono quaderni, righelli, squadre, compassi; non fanno le “grechine”, né i dettati, né le interrogazioni alla lavagna. Nessun bambino viene bocciato, ma nessuno viene neanche corretto, aiutato a migliorare e a crescere. Le maestre cambiano ogni anno e così i compagni di classe, impedendo ai bambini e ai ragazzi di instaurare amicizie durature e quei legami forti che si creano solo nell’infanzia. Certo, questa è solo la mia esperienza, e quindi non fa necessariamente testo generale sul livello di istruzione americano. Sia  come sia, la nostra scuola è stata premiata tra le migliori cento d’America quindi non oso pensare cosa
succeda nelle altre. Lasciatemi quindi dire che, per quel che riguarda l’istruzione primaria, l’Italia non ha nulla da imparare dagli Stati Uniti. Purtroppo (per loro, ma per fortuna per noi) stesso discorso vale per l’Università, che è l’unico altro tipo di scuola su cui so qualcosa: come anticipato in precedenza, gli studenti italiani hanno una preparazione generale e soprattutto un’abilità a risolvere problemi e una flessibilità che tutto il mondo ci invidia. Tanto che, per quanto possa sembrare incredibile, all’Università vengono proposti corsi denominati Pensiero Critico, in cui si insegna a valutare i ragionamenti, a gestire e affrontare situazioni nuove, a trovare soluzioni fuori dagli schemi. Quindi quello che in Italia tutti posseggono sin da piccoli e che chiamiamo molto banalmente Senso Comune”.

In questi 20 anni trascorsi in America, l’esperienza che ha vissuto le è servita per la docenza che ha appena intrapreso in Italia all’Università di Bergamo?

“La cosa che ho imparato nel mio periodo di docenza negli Stati Uniti e che mi sarà sicuramente utile ora, è spiegare le cose nel modo più semplice possibile, senza dare per scontata una preparazione di base comune. È una cosa che ogni insegnante a mio avviso dovrebbe imparare a fare, che potenzialmente rende più accessibili gli argomenti apparentemente più specialistici o tecnici, fosse questa la matematica, la fisica o la biologia, le cui basi non dovrebbero essere appannaggio di pochi ma comprensibili a tutti”.

Secondo lei sarebbe più bello utilizzare l’espressione “circolazione dei cervelli” anziché fuga? Uno scambio di idee e di risorse tra Paesi altamente industrializzati porta beneficio al mondo intero. È d’accordo su questo? “Si, sono pienamente d’accordo. Nel passato si parlava correttamente di fuga, perché l’espatrio era quasi sempre definitivo. Ora, con le nuove leggi e le nuove leve, spero si possa davvero parlare di circolazione.”

Quanto è importante al giorno d’oggi che i giovani si interessino della sua materia, per affrontare il domani cominciando da subito a preparare un mondo migliore dal punto di vista ecologico-scientifico?

“Io sono laureata e ho un dottorato in fisica, quindi molti pensano che io vada tutti i giorni in laboratorio a fare piccoli buchi neri o qualche altra cosa fantastica. In realtà subito dopo la laurea ho abbandonato la ricerca di laboratorio, in cui ci si dedica a scoprire come è fatto il mondo, e mi sono interessata a questioni più fondamentali e meno pratiche. Per esempio, il legame tra teoria ed esperimenti, per capire come gli esperimenti possano confermare o falsificare una teoria; il legame tra matematica, fisica e realtà, per capire cosa la fisica ci possa dire sul mondo; il legame tra scienza e spiegazione, per capire perché una spiegazione fornitaci da uno scienziato è più valida di quella di una cartomante. Quindi io mi occupo e insegno corsi non su come fare scienza, ma su come la scienza procede e si sviluppa, e su quello che ci può insegnare. Incluso come usarla per cambiare il mondo per il meglio.”